Recensione Taboo. Dalla narrazione all'attrazione visiva.

Taboo è una serie tv del 2017 di produzione britannica, ideata da Steven Knight, Tom Hardy e da suo padre Chips Hardy.

1815: l'avventuriero James Keziah Delaney, dopo aver passato molti anni in Africa, torna in Inghilterra per riscattare l'eredità del padre, tra i cui vi è una striscia di terra nel nuovo mondo, chiamata baia di Nootka. Il suo ritorno inaspettato crea scompiglio per l'Impero Britannico, ancora scottato per l'indipendenza Americana, e sconvolge i piani della Compagnia delle Indie Orientali.  

La serie si articola in otto episodi. Il primo è sostanzialmente la presentazione del protagonista, James Keziah Delaney (Tom Hardy), di cui viene fatto un ritratto ambiguo e oscuro. L'unica cosa certa del personaggio è la sua immediata determinazione ad ottenere l'eredità paterna.
Nel mentre vengono presentati i coprotagonisti ed antagonisti: la sorellastra, il Capo della Compagnia delle Indie e il suo seguito, una spia americana, uno strano e misterioso padrone di casa della residenza Delanye. A questi, nel corso di altri episodi, ne seguono altri, ciascuno con un suo ruolo ben preciso.
Tutta la narrazione si articola nel conflitto che si istaura tra James Dalaney, la Compagnia delle Indie Orientali e la Corona. Un conflitto in cui ognuno ha un suo asso nella manica da usare, dove tutti sono alla ricerca di un proprio tornaconto. La causa della tensione è proprio la baia di Nootka, posto strategico per diverse ragioni e che interessa alle varie parti in gioco per altrettante diverse ragioni.
Ma, in questa serie di azioni che si sviluppano, tutto appare nebuloso, proprio come se lo spettatore si muovesse dentro una nebbia fittissima senza punti di riferimento. Non si comprende dove la storia voglia condurci, rendendo difficile elaborare supposizioni che poi combacino effettivamente con l'evolversi della storia. Anzi, molto spesso si forniscono false piste, depistando completamente il pubblico. Ciò per certi versi funziona, perchè ha un effetto trainante verso l'episodio successivo; però, dopo un pò stanca, perchè manca una soddisfacente risoluzione.
In questa cornice anche i personaggi non hanno una chiara definizione. Del protagonista si sa pochissimo all'inizio e si sa pochissimo alla fine. Appare come un individuo molto grezzo, ma ciò dice ben poco su di lui. Parla l'africano e il suo corpo è ricco di tatuaggi tribali; questo, unito a certi suoi modi di agire e interagire coi personaggi, fa pensare che sia una sorta di sciamano, ma non se ne ha mai la certezza. In stato di ubrichezza o in particolari situazioni che favoriscono la reminiscenza, è tormentato da visioni del passato; questi flashback, però, sono spesso molto ripetitivi, mostrano più o meno la stessa cosa con minime varianti.
Quindi, di questo protagonista dal primo all'ultimo episodio si scopre ben poco, lo spettatore rimane frustrato da questa scarsità di informazioni. Ciò che affascina e incuriosisce è proprio la sua misterisità tribale ed anche la sua strordinaria capacità di uscire dai guai.
Benchè si rimanga all'oscuro di molte cose, riguardanti anche altri personaggi, si apprezza nell'articolazione della trama quella che metaforicamente si potrebbe definire una partita a scacchi tra il protagonista e gli altri fronti. Ed attraverso di essa interessante è l'intepretazione delle dinamiche politiche che allora potevano esistere tra la Compagnia delle Indie Orientali, la Corona e la nascente nazione degli Stati Uniti d'Americha. Viene fornito un affresco di quella tensione che derivava dall'amara sconfitta del Regno Unito dopo la guerra di indipendenza del 1776; una tensione che per oscuri giochi politici e soprattutto per spietati interessi commerciali poteva causare un nuovo conflitto. Da questo punto di vista la misteriosità della narrazione può essere giustificata.

Gli storici del cinema hanno sempre individuato due attribbuti della settima arte: l'attrazione e la narrazione. La prima riguarda l'elemento visivo, quindi l'immagine in movimento, i trucchi, gli effetti speciali e le scenografie  che possono suggestionare in vari modi lo spettatore. Il secondo aspetto riguarda appunto la narrazione, l'agire dei personaggi e l'evolversi della trama. In diversi momenti storici ha prevalso un aspetto piuttosto che un altro: ad esempio nel cinema d'avanguardia degli anni venti, quando questa era un'arte ancora da scoprire, prevaleva l'interesse per l'attrazione e l'elaborazione di un certo tipo di immagine. Al contrario nel cinema americano classico tutto l'aspetto delle attrazioni era subordinato all'elemento narrativo. Oggi, invece, abbiamo di nuovo un cinema che tende all'attrazione e che vuole colpire attraverso gli effetti visivi, nella maggior parte dei casi realizzati digitalmente.
Da questo punto di vista, Taboo è una serie che mette in primo priano l'elemento attrattivo. Perchè se c'è una narrazione incompleta dove lo spettatore non è informato di tutto, ciò è compensato però dal grande impatto visivo che la serie riesce a dare. Si ha, di fatto, una splendida ricostruzione della Londra del 1815: le sue strade, i palazzi, i sobborghi, le zone malfamate, gli ambienti di corte, le feste lussuose, gli interni delle case d'epoca, i costumi e così via. Quindi un'ottima ricocomposizione della vita di allora, fatta di ricchezza sfrenata da un lato (le stanze del principe d'Inghilterra) e la povertà dall'altro lato. Ed il protagonista, insieme ai suoi alleati, sta nel mezzo, muovendosi all'interno di queste realtà. In un certo senso, il suo agire sembra un modo per consentire all'occhio della telecamera di osservare e riportare, non tanto le storie dei personaggi, ma un affresco chiaro e preciso di quell'epoca storica, con tutte le sue realtà  politiche, sociali, antropologiche ed economiche. 

In definitiva una serie tv che per vari motivi funziona. Anche se la trama e soprattutto le singole storie dei personaggi rimangano tenebrose, facendo alla fine arricciare il naso, l'occhio gode di un ottimo piacere visivo che riesce a compensare le mancanze narrative. Mancanze che si spera saranno risolte con la seconda stagione.  

Recensione di 
Francesco Crispi 

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